“Tutto è grazia”

Il rigore quaresimale del cinema di Bresson e il suo capolavoro “Il diario di un curato di campagna”

Video: "Il disordine è nell'ordine delle cose"

“Il diario di un curato di campagna”, libero adattamento di un romanzo di Bernanos (scritto nel 1936), è un film del 1951 diretto da Robert Bresson. La complessità del romanzo di Bernasos è restituita attraverso il susseguirsi di piccoli episodi che frammentano la narrazione con lente dissolvenze su nero. Episodi uniti tra loro attraverso i pensieri in voice over del protagonista che è appunto il giovane prete.

La storia è di un minimalismo disarmante e narra le vicende di un giovane curato dalla salute cagionevole e tormentato nell’anima da dubbi e incertezze, deve lottare contro la freddezza e la crescente ostilità della comunità in cui si è da poco insediato. Un quadro rurale di struggente bellezza che racconta con sobrietà il rapporto dolente tra l’uomo e il mistero della fede.

Bresson è abile nel mettere in risalto, mediante inquadrature di geometrica esattezza, che rimandano all’iconografia bizantina, il peso e il dolore della contemplazione sia del divino e sia della misera condizione umana. Come diceva Godard “Il carrello è una questione di morale”, e qui Bresson sembra incarnare questa massima scegliendo quando muovere (molto raramente) la macchina da presa con queste carrellate sul volto del protagonista che non ci lasciano dubbi su cosa pensa il regista del povero curato e allo stesso tempo sembrano volerci interrogare sul rapporto tra Dio e l’uomo. Stiamo parlando di un’opera indubbiamente fondamentale nella storia del cinema che ha influenzato registi del calibro di Truffaut, Scorsese e Bergman, opera sulla quale si è soffermato attentamente anche un regista e sceneggiatore come Paul Schrader. Lo sceneggiatore di “Taxi driver” e “Toro scatenato”, regista di perle come “Hardcore” e “American Gigolò”, analizzò ampiamente la filmografia si Bresson e usò molto questo film come termine di paragone per spiegare e teorizzare il metodo di quello che chiamò “Stile trascendentale”. In questo film, lo stile così austero (appunto trascendentale) dal rigore quasi quaresimale, permette al regista di sovraccaricare di significato la quotidianità banale e ripetitiva, causando nello spettatore la stessa scissione che vive il protagonista.
Lo spettatore, come il giovane prete, accetta tale scissione che rappresenta il paradosso della spiritualità esistente all’interno del mondo fisico. Tale paradosso non può essere ricomposto, spiegato o mostrato da nessuna logica terrena e quindi sarebbe quasi impossibile da mostrare nel cinema. Bresson lo fa attraverso lo stile trascendentale.

Infatti soltanto nella stasi finale, che ritroviamo nella coda della penultima inquadratura e poi si cristallizza nell’ultima inquadratura del crocifisso, si ha una re-visione unica del mondo esterno. Ci viene suggerita l’unità di tutte le cose: senza mostrarci Dio o un miracolo abbiamo la certezza della santità di questo personaggio.
Questa visione statica del crocifisso dell’inquadratura finale, rappresenta la tensione fisica e spirituale (anche se in questo caso irrisolta) che coesistono nel trascendente.

Il film è una via crucis del nostro tempo sotto forma di diario che emoziona e fa riflettere anche gli spettatori non credenti.
Un capolavoro che si aggiudicò il Premio internazionale, il Premio OCIC e il Premio per la miglior fotografia (Léonce-Henry Burel) alla Mostra del Cinema di Venezia del 1951.

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